lunedì 16 aprile 2012

tanto per intenderci


“Chi ha tende per intendere in tenda, gli altri nelle orecchie”.
Ma ecco che tra le orecchie ci fu una vera insurrezione. Erano così scontente della frase che, tre righe fa, non so chi aveva pronunciato, che iniziarono a tirarsi l’una con l’altra e a fare i capricci come i bambini piccoli.
"Andrebbe meglio se andassero nei nasi?", le interrogò il vocione fuori campo che aveva parlato anche all'inizio.
“Nei nasi, certamente!”, fecero quelle.
Ma pensate forse voi che una simile soluzione potesse andar bene? 
Difatti, tutti i nasi del circondario iniziarono a protestare con argomentazioni precise: ciò che entra da un orecchio esce spesso dall’altro, ma quel che entra nel naso, ci resta! E le teste dei rispettivi nasi non si sarebbero mai potute permettere di sopportare il peso di tanti sconosciuti.
La voce provò allora a chiedere alle labbra, ma queste gli apparvero subito tutte imbronciate.
Agli occhi, ma quelli potete figurarveli,  piangono già come matti per un solo bruscolino!
Fortunatamente, tutti (chissà poi chi erano) avevano delle tende, e per quella volta il pericolo fu scongiurato. 

il gatto delle Sabrine

AVVISO: attenti che questa si legge dopo quella prima e quella prima si legge prima di quella dopo, cioè questa.



Un giorno, nel paese delle Sabrine arrivò un gatto tutto intero, con i baffi, il pelo, quattro zampe e anche lui due occhi, che però erano occhi da gatto.
All’inizio si preoccuparono, poi continuarono a preoccuparsi. La ratta Sabrina, forse per la paura, si era defilata. Per trovarla, ci fu bisogno di chiamarla ad alta voce.
Ma prima fecero un bel discorso al gatto delle Sabrine, che li guardava con gli occhi da gatto gialli e blu: 
“In questo paese c’è posto solo per l’amicizia e, a chi non dovesse andare bene, spettano i lavori forzati!”
I lavori forzati, consistono nell’andare in giro con Sabrina tutto il giorno a salutare una per volta tutte, ma proprio tutte, le Sabrine del paese, rimanendoci insieme anche per giorni, mesi o anni, finché qualunque attrito non sia del tutto superato. In genere non ci vuole tanto, perché le Sabrine del paese delle Sabrine sono tutte affabili, simpatiche e devo dire anche belline.
In effetti era bellino anche il ratto delle Sabrine (che in realtà era una ratta), che saltò fuori da un cespuglio completamente rincuorata. Il gatto delle Sabrine, che in realtà era una gatta, abbracciò subito la ratta, mettendo fine a un’inimicizia decennale che forse si era inventato qualcuno che decisamente si sbagliava.
Questo abbraccio fu festeggiato per 55 settimane e alla gatta, per festeggiare ulteriormente, fu assegnato ad honorem il nome di Sabrina. 

il ratto delle Sabrine


Nel paese delle Sabrine, Sabrina filava la lana. Contemporaneamente, Sabrina giocava a palla contro il muro e Sabrina preparava la cena. Sabrina, invece,  salutava tutte le altre dal balcone, mentre prendeva il sole. Sabrina rispondeva subito al saluto, giocando coi riflessi del sole grazie al suo specchietto comprato in quella merceria che avevano aperto da poco, come si chiamava? Ah sì: Sabrina & Sabrina.
Un giorno, nel paese arrivò un ratto. Quelli troppo ferrati in storia, che magari pensavano a un rapimento, dovrebbero subito cambiare storia: questo ratto qui aveva gli occhi da ratto, le orecchie da ratto e persino l’intonazione di voce era quella tipica di un ratto.
Alle Sabrine all’inizio fece un po’ paura: quell’intonazione non l’avevano mai sentita, delle orecchie così, mai viste una volta e persino quegli occhi da ratto, erano qualcosa di decisamente nuovo.
Col tempo, però, fecero amicizia, il ratto imparò a lavarsi sotto il rubinetto e a non spaventare le sabrine sgattaiolando (meglio: srattaiolando) di colpo fuori dai buchi dei muri.
Si scoprì anzi, notizia sensazionale, che non si trattava di un ratto, ma di una ratta femmina! Per festeggiare, decisero di darle subito un nome. Ci pensarono 3 giorni, 2 notti, 8 tramonti, 2 lunghi meriggi e alla fine la chiamarono Sabrina. 

il maniglione antipatico


C’era una volta un maniglione ANTIPATICO. Poverino, lui voleva essere antipanico come tutti gli altri, invece era antipatico a tutti.
Una sera disse una preghiera: non voglio più essere antipatico!
Detto fatto! La mattina dopo era proprio simpatico: le maniglie lo salutavano sollevando il cappello e le chiavi giravano nelle toppe in segno di profonda stima, prima a destra e poi a sinistra (perché nessuno rimanesse chiuso fuori).
Ma purtroppo, non era ancora un maniglione antipanico. Non avendo specificato alcuna richiesta, era diventato un maniglione ANTIPRATICO:
per aprirlo bisognava bussare, fare una giravolta, dire al contrario le lettere dell’alfabeto, piangere, ridere (in entrambi i casi, di gioia), aspettare un passante, fargli una carezza e invitarlo a passare. A quel punto il maniglione scattava automaticamente e la porta si apriva con un sorrisone. L’operazione metteva parecchio buonumore a chi passasse, ma in effetti avrebbe potuto creare qualche complicazione in caso di incendio.
Il maniglione iniziò a pensarci sempre più spesso. Un giorno poi, il fuoco divampò davvero e la gente arrivò correndo davanti a lui, bussava con le lacrime agli occhi per la paura ed il fumo.
Ma il nostro eroe, così colto alla sprovvista, non aveva idea di come fare ad aprirsi! Trattenne il respiro, ma niente, provò a saltare, ma non si mosse di un millimetro. Si concentrò, urlò aprì gli occhi, li chiuse. Niente. Infine scese una lacrima anche a lui.
Non era una lacrima qualunque: era una lacrima di OLIO zecchino, che nasceva dal desiderio sincero di salvare quei poverini. Mica per essere simpatico, o pratico e in fondo neanche antipanico, ma perché gli voleva bene, e teneva tanto alle loro vite. 
Già una goccia di quell'olio, per chi non lo sapesse, sarebbe bastata a far scattare all'unisono tutte le serrature del palazzo. Ma quella lacrima, ragazzi, fece aprire la porta, accompagnò in salvo i presenti, richiuse la porta arginando il fuoco e infine spense l’incendio dalla prima all'ultima fiammella. 

domenica 15 aprile 2012

il pilota automagico


Mentre guido un po’ stanchino,
per le strade di Pechino,
mi verrebbe assai pratico
un pilota automatico.

Ma automatico manca,
guida troppo e si stanca.
Se non è troppo tragico,
ne ho qui uno AUTOMAGICO.

Inserisco il contante,
premo a fondo il pulsante,
che comincia a pulsare
verso un viaggio stellare.

Così mentre è buio pesto,
e il cuscino mi riassesto,
son finito su Plutone,
dentro un campo di pallone.

Son finito poi su Marte
recitando la mia parte
di terrestre un po' bizzarro
sotto il fitto del tabarro.

Il tabarro è sì piaciuto,
ma per via di uno starnuto,
storce il naso anche il marziano,
ma ormai sono già su Urano.

Certo il tempo qui è migliore,
ci son mille ed un colore,
cento stelle che si chiamano,
vedi bene che si amano.

Tendo la mano per salutare,
ma è già cambiato sistema solare!
In un pianeta con sette soli,
quattordicimila girasoli

salutano l’alba, poi l’alba, poi l’alba,
e neanche una che sembri scialba.
Certo i colori sono un po’ strani,
son gialli i fiumi e verdine le mani.

Sciacquo le mani con grande attenzione,
e son sulla Terra, alla stazione.
Mi aspetta il treno: Pechino-Vercelli,
mi si apriranno tutti i cancelli!

Faccio per scendere e sono esitante,
mi fermo a guardare il bel pulsante,
e sì che a schiacciarlo non serve moneta,
ma chiudere gli occhi e cambiare pianeta. 

sabato 14 aprile 2012

la strada vecchia


Chi lascia la vecchia strada per la nuova, 
sa quello che lascia ma non sa quello che trova!

Borbottò un borbottone nato e cresciuto a Borbottiamo Milanese.

A voi sta bene? 
Ecco appunto, proviamo così: 

Chi lascia la vecchia strada per la nuova, 
potrebbe inciampare in un cesto di uova

«Non mi pare che miglioriamo!»
Dammi tempo!

Le uova, perdinci, erano tutte d’oro,
spesso si inciampa in un grande tesoro!

Benissimo! 
Il brontolone lo abbiamo sistemato, ma abbiamo qui il signor Tommaso Dinci che reclama le sue uova. (e allora io cosa ci sono inciampato a fare? E sì che ne avevo già data una in acconto per comprarmi il motorino). 
Va bene va bene, rifacciamo. Signor Dinci si sieda lì e stia buono. Anzi, ascolti: 

Chi lascia la vecchia nuova per la strada, 
lascia il tempo che trova ma non trova quel che sa.

Ma la signora Rosalina, nonna di Giuseppe e Gualtiero, che nessuno ha mai visto ne conosciuto prima e che pertanto è una Vecchia Nuova a tutti gli effetti, obietta sul fatto che non la si può lasciare in strada: soffre di reumatismi, inoltre deve filare a casa a preparare la merenda.

Figuriamoci! Che ne dici di questa?

Chi lascia la strada nuova per la vecchia,
può perdere saltando questa orecchia,
sia mai che ne ritrovi un’altra uguale,
e gliela porga quel furbo di Pasquale.

Niente da fare neanche questa volta: Pasquale, per quanto furbo, è Pasquale solo a Pasqua. A Natale è Natale e per il resto dell’anno cambia tanti nomi quante stelle nel cielo. 

Inizia a finire lo spazio. Quante pagine ci avevano dato? Due? Un signore un po’ sbrigativo, che avevo incontrato un giorno non so dove, potrebbe anche dire che:

Chi lascia la vecchia strada per la nuova,
forse sarebbe meglio che si muova!
La vecchia è solcata da somari,
che muovon mille passi sempre uguali!

Un tantino brusco, in effetti. 
Alla fin fine, un mio amico veramente paziente, mi ha fatto scrivere così:

Alla strada vecchia, per dove mi ha portato,
non posso che rimanere grato,
ma chi ne prende una nuova o anche un sentiero,
riscopre da capo il mondo intero. 

giovedì 12 aprile 2012

il mar Antonio


“Se una biglia più mezza biglia fa una triglia, quante mezze biglie ci vogliono per popolare il mar Morto?”
Antonino si pone la domanda con sincera compassione.
Sulla disgrazia del povero mar Morto, c’è chi dice che sia trattato di cause naturali, altri sono invece certi che non sia stata altro che una pungente nostalgia: senza un pesce neanche a pescarlo, il povero mare si trovò mano a mano sempre meno ridente, e a poco valsero il tam tam dell’Oceano Indiano o i discorsi di fratellanza del suo compagno Pacifico. Il suo spirito di acqua cristallina aveva così finito per allontanarsi per cercare compagnia, lasciando a quelle acque l’appellativo di mar Morto.
Il piccolo Antonio, tuttavia, ha quasi finito di segare le sue biglie di legno, siede sulla riva e pregusta il momento in cui lancerà in acqua il sacchetto intero per chetare la solitudine di tutto il mare.

Per sapere com’è finita la storia, provate un po’ a mettervi nei panni del mar Morto: non sareste forse tornati di corsa, portando con voi un bel nome nuovo?
Ad esempio: Mar Giulivo, Mar Grato, Mar Tedì, Mar Imango (per questa volta), o anche mar Triglio.
L’interessato, invece, decise di chiamarsi mar Antonio.