martedì 31 gennaio 2012

la famiglia all'incontrario


Schiamazza, ride e scherza in quel di Udine, 
una famiglia con una strana abitudine: 
il babbo porta nome Piergianmario
e vestono a dir poco all’incontrario.
Il figlio, che si chiama Piermarino, 
porta la testa sopra il cappellino.
Non fa certo eccezione sua sorella, 
che ha un copriletto sotto la gonnella. 
Il nonno, nemmeno a parlarne, 
ha una bretella con dentro l’antitarme
e la nonna, sopra la calzamaglia, 
ha la cartina intera dell’Italia.
La mamma è una signora perbenino
e veste un bel corsetto al tegamino. 
Tra questi non sfigura Piergianmario, 
che ha al collo la foce dell’Ontario, 
annodata con nodo da cravatta, 
su una camicia di limoni e ovatta.
Certo a qualcuno può sembrare strano, 
o forse fuori moda, o vano,
una famiglia con simile vestiario,
ma invece è vero proprio l’incontrario: 
è certo una fortuna non da poco, 
che vale un riso, uno scherzetto e un gioco, 
trovarsi capaci di indossare 
un fiume in piena o il cielo azzurro o il mare.

lunedì 30 gennaio 2012

il buongiorno (che a un certo punto comunque si vede)


Il buon giorno si vede dalla sera,
e una pera val ben una teiera.
Che poi, dipenderà ben da che teiera, no?
Un mio amico aveva una teiera a forma di pera, che barattò con una pera a forma di teiera. Ogni mattina, per errore, versava il tè dalla pera, rimediando al massimo un picciolo. Ora che si accorse dello sbaglio, si era fatta sera e fu proprio da quella sera che si vide il buon giorno.












La teiera, presa da grande nostalgia, dopo pochi giorni tornò a casa e fu accolta tra grandi feste.

I suoi vecchi padroni furono ricambiati per la comprensione con una confezione di buongiorno senza orario

La pera, un po’ indispettita per l’errato uso che le si richiese, emigrò oltremare e fece fortuna.

Il mio amico vi saluta!

sabato 28 gennaio 2012

I DUE SCEMARI (e il paese che sarebbe potuto essere troppo piccolo per tutti e due)


Il primo Scemario nacque così, fu proprio una cosa di un secondo:
mentre il signor Prisco Bombonio, stimato cattedratico dell’Università dei Forse, terminava la compilazione di un importante studio sulla funzione dei fichi secchi nel non capirci niente, venne punto da una zanzara giaguara. Il disappunto distrasse il professore, provocando un quasi impercettibile errore di battitura che trasformò un altisonante SCENARIO in uno scalcinato SCEMARIO, che elencava tutti gli scemi dell’emisfero con grande dovizia di particolari. Lo Scemario, traballando sbilencamente ma ben contento di essere al mondo, divenne presto un importante testo di studio, affiancando nelle scuole all’avanguardia il sussidiario e la tavola degli elementi (quelli buoni, giacché quelli cattivi venivano mandati dalla maestra fuori dalla porta).  

Il secondo Scemario nacque anch’esso da un errore, ma di portata assai più consistente. Almeno così parse al povero Mario, che passeggiava fischiettando per la strada quando Cestina Cestini, intrecciando un cestino di vimini, urtò per errore un'incudine colorata sul suo davanzale, che cadde centrando in pieno il malcapitato. Anche il giovanotto, si ritrovò così improvvisamente SCEMARIO: ancora biondo, alto e piuttosto simpatico ma - diciamo - un attimo più lento di comprendonio.
Niente di gravissimo alla fin fine, gli amici gli volevano bene e l’arrivo del comprendonio si aspettava al bar insieme, davanti a una gazzosa.

Ma un giorno, passò davanti al bar un bimbo con una gigantesca cartella fuxia, sbandò in curva, prese una buca, barcollò su una buccia di banana, perse l’equilibrio e si girò a cercarlo, trovandolo all’ultimo istante, proprio mentre il suo Scemario in carta e ossa, saltava fuori dalla cartella e cadeva minacciosamente ai piedi di Scemario, quello sulla porta del bar con la gazzosa in mano.
Tutti temettero la tragedia.
Invece Scemario, circondato dagli amici preoccupati, non capì assolutamente niente, raccolse il libro e si soffiò il naso con la prima pagina, prima di renderlo al bambino che lo fissava attonito.
Il caso volle che, proprio sulla prima pagina, lo Scemario didattico ritraesse il nostro eroe, con il suo sorriso bonario e un poco ebete: il buon Scemario, ignaro di tutto, si era paradossalmente soffiato il naso con se stesso!
Prima di terminare di capire questo passaggio, a Scemario fece in tempo a spuntare la barba nelle orecchie,
La produzione editoriale però ne fu molto colpita e da quel giorno, su ogni Scemario del paese di Gattacicova, l’immagine del nostro eroe viene ritratta sulla copertina rigida. Dedicarsi alla pulizia personale con quella è senz'altro impossibile, così da evitare ogni possibile paradosso. 

venerdì 27 gennaio 2012

i telefanti


Un eleré, un’eledonna e un elefante, 
saltarono dentro un armadio a tre ante.
Ragioni per ciò ne troviamo tante
ma neanche una di preoccupante,
se non che la stazza dei pachidermi
irruppe su mille teleschermi:
l’armadio era in vero, ed è straordinario
un cinematografo all’incontrario.
Per adattarli, tra prima e presto,
alle esigenze del palinsesto,
furon truccati i tre telefanti
così che il dietro sembrò davanti,
così che il sopra sembrò di lato
e il tettò di avorio un supermercato.
Il tetto d’avorio non piacque molto
e anche se altissimo fu l’ascolto,
i tre telefanti, da dentro l’armadio, 
si dedicarono solo alla radio. 

giovedì 26 gennaio 2012

tanto per (o anche pertanto)


Se tanto mi dà tanto
Una tonta resta tonta,
ma tanto, non sarà un’onta che una tonta resti tonta, che tanto tonta per tonta o tanto per tanto, lo sanno soltanto o sì tanto, che si sente una certa nostalgia per il re-tanto, fiero condottiero che non pare neanche vero, ma ancor di più per il fa-tanto, che è ciò che il mondo dice a noi ogni giorno, o per il do-tanto, di cui avrei tanto bisogno io.

Avete perso il filo? Anch’io. Scegliete quello che preferite: 


l'elefalso


Barattare un barattolo con bar di tolla.
Arrabattarsi barando mentre il bar di tolla, sentitamente barcolla.
Mi arrabatto con la colla, per abbarbicarmi sul barattolo mentre il baricentro del bar barbaramente bardato, barcolla un po’ meno, grazie al barlume di colla.
Apro a Barcellona un bar di barattoli, barattandolo con un barrito di Bernardo, l’elefante Bugiardo.
Difatti, non barriva davvero, e lo scambio è stato denunciato per truffa.
Le assonanze sono finite, e anche questo bieco imbroglio.
Vi preghiamo di circolare.




mercoledì 25 gennaio 2012

a voler risparmiare



C’era una volta un tale che voleva per forza risparmiare. All’inizio aveva a disposizione un intero
PIANETA,
ma per risparmiare una semplice E, si trovò di colpo con una piccola
PIANTA.
Aveste un’idea di quanto si lamentò! “Avessi nascosto la A" diceva, "ora avrei almeno una PINETA, che d’estate tiene un po’ fresco!”. Ma non c’era più niente da fare.
Fissando la sua pianta, non poté fare a meno di notare che due A in una parola sola erano certo un grande spreco! “Una la terrò in tasca”, si disse, “e la userò solo in caso di carestia”.
Ma in un istante, svanirono tutte le foglie con tanto di tronco e il poverino restò con in mano soltanto una
PINTA,
che ovviamente non riuscì a riempire perché, avendo perduto il mondo due vocali prima, l’ultima cosa che poteva aspettarsi era di trovare un rubinetto.
Per la rabbia tentò di inghiottire la T tutta intera, e potete immaginarvi quanto sia dura da mandar giù una T senza neanche un sorso d’acqua. Ma non è tutto: mentre tossiva strabuzzando un occhio sì e uno no, comparse nientemeno che sua zia
PINA,
che era quanto gli rimaneva – si fa per dire – dei grandi possedimenti di un tempo. La zia gli assestò subito due ceffoni e iniziò a ricordargli di quella volta che, per marinare la scuola, aveva condotto sulla cattiva strada anche il suo cuginetto.
A questo punto il tale lanciò un urlo disperato, che faceva precisamente così: “NOOOOOOOOOO!!!”; e se di O se ne era trovato una manciata in tasca, dovette prendere di corsa in prestito l’unica N disponibile.
Subito, la zia si sentì particolarmente
PIA
e, confessandosi tra se e sé per quella storia dei ceffoni, che in fondo erano stati dati sì forte ma a fin di bene, proruppe in una serie di ferventi preghiere.
Il pensiero che persino un albero solo e mingherlino valesse assai più di una zia violenta, per quanto pentita, mise al signore un certo magone. Avrebbe voluto piangere, ma di questo verbo non possedeva che le prime 3 lettere e non riuscì a versare neanche una lacrima. Pur di togliersi la zia di torno, sacrificò l’ultima A rimasta, ritrovandosi con una minuscola
PI,
che, per giunta, non era neanche greca. Offesa da questo commento discriminatorio, la P, che non era greca ma non si sentiva poi tanto minuscola, lo piantò in asso e se ne andò via a balzelloni.
Non restò che una
I.
L’uomo tentò dapprima di usarla come bastone perché, a furia di cercare di risparmiare, era diventato vecchio. Fortunatamente, la vecchiaia l’aveva reso un po’ più saggio e decise, per la prima volta in tutta la sua vita, di fare un regalo a qualcuno: donò la sua ultima I a un bambino biondo che sognava di diventare campione di salto con l’asta.
Questi lo salutò con un sorriso e il vecchio se ne andò via così leggero per il fatto di non dover più risparmiare, che il pensiero di non avere più niente non lo sfiorò neppure.

martedì 24 gennaio 2012

colbaccogenesi

Una volta successe una cosa davvero singolare: crebbe un capello in cima a un cappello. Tempo dopo, senza che nessuno se l'aspettasse, successe una cosa plurale: ne crebbero molti, e quel cappello diventò un colbacco. Ora, che una cosa singolare diventi plurale, è senz'altro una cosa singolare, e questo le impedisce di essere diventata plurale. La situazione fu subito notata e creò molto imbarazzo nei redattori della grammatica italiana, del senso comune e nei luminari delle scienze esatte. Per questa ragione, il colbacco fu dichiarato nemico della Patria e imprigionato. Ma la condanna di un cappello provocò ancora più disagio in questi saggi signori, che non ne vollero mai più sentir parlare. Così oggi il colbacco si usa solo quando è proprio indispensabile, tipo quando fa freddissimo o, al limite, in Russia.

missione speciale


Questa mattina, proprio sul treno dietro casa tua, c’era nientemeno che il re di Nocciolinia. Nessuno lo aveva riconosciuto. A vederlo pareva un insospettabile vecchietto, ma la sua vera identità era tradita da una magica brezza di arachidi che aleggiava da sotto il fitto impermeabile.
Il suo regno è minacciato da diecimila castori, ed egli cerca la soluzione proprio in Lombardia. Ha incartato nel suo sacchetto quasi tutta la nebbia di questa mattina, lasciando fuori l’indispensabile per sviare i sospetti. Grazie ad essa farà credere ai castori di essere su una nuvola altissima, così che questi, per timore di soffrire di vertigini, scappino in meno di un minuto. Per non rendere questa fuga disordinata e rischiare che qualcuno si faccia male, ha contattato il maestro delle viole, che poco fa era comodamente seduto a metà del vagone abbracciando la sua viola magica. Questo strumento è in grado di colorare la musica e, al confronto, il piffero del pifferaio magico ti sembra uno starnuto.
La sua viola trasformerà in una danza la fuga di tutti i castori, salvando il regno di Nocciolinia dal rischio che qualcuno, entro i suoi confini, possa abbandonarsi alla paura e magari rischiare di scivolare.
Quanto narrato è accaduto sul treno delle 8.40, e l’oracolo di Desio ha predetto che, entro mezz’ora al massimo, la missione sarà compiuta. 

lunedì 23 gennaio 2012

un posto come un altro?


I sogni sono di tutti i colori
e i colori sono di tutti i sogni.
Ogni pensiero è un luogo dove abitiamo.
Qualcuno si era mai fermato a pensare
dove vogliamo abitare?
















Proposta 1: 

Per cielo il colore di un giorno speciale,
per occhi la luce del sole e del mare,
per bocca lo squillo di mille soprani,
per dargli la forma, usare le mani.
Per dargli emozioni, usare i colori,
li abbiamo davanti, tiriamoli fuori!

Proposta 2: 






(scrivete pure sullo schermo)


domenica 22 gennaio 2012

scherzi da ingegnere


Un giorno l’ingegner Pollacchieri, stimato professionista in scherzi rotondi e quadrati, penetrò nottetempo nella casa del signor Venanzi e con un sistema studiato ad arte gli appese la stanza da letto al soffitto. La mattina seguente il signor Venanzi si svegliò come sempre alle otto e tre quarti, guardò fuori dalla finestra e vide tutto al contrario. Nessuno ancora sapeva che il signor Venanzi, arcicapo di tutti i bidelli della scuola di risate sotto i baffi di Segrate, soffriva di un rarissimo complesso di amplificazione degli spaventi. Di conseguenza si spaventò moltissimo e tirò un urlo, ragazzi, un urlo veramente fortissimo. Fu così forte che il mondo intero si girò all’incontrario per il contraccolpo così che al signor Venanzi, guardando fuori dalla finestra, sembrò tutto normale e si sedette tranquillamente sul soffitto a fare colazione. 

giovedì 19 gennaio 2012

la città del vento


Sulla Città del Vento tira un vento così forte che la Bora di Trieste a confronto è una brezza primaverile. 
Per non volare via, i bambini calzano scarpe di piombo massiccio e già in tenera età hanno gambe muscolosissime.
Le mamme e le signorine, un po’ meno vigorose, hanno capelli lunghissimi che, prima di uscire, legano al balcone, così da potersi arrampicare fino a casa dopo aver fatto la spesa. 
In compenso, si va sempre a spasso: 
il vento si pianta nell'erba dai confini della città e la solleva come fosse un vassoietto. 
Oggi i suoi abitanti sono stati in Islanda, mentre proprio ieri nuotavano nel mare del Madagascar. 
La Città del Vento è migrante come i nomadi, ma dappertutto viene benaccolta: il suo arrivo è salutato da lontano da tutti gli aquiloni del mondo. 


mercoledì 18 gennaio 2012

un albero di mogli (o una moglie per albero?)

La botte ubriaca e la moglie piena
O una botte piena di mogli ubriache
O mogli ubriache che ti prendono a botte
O un botto di mogli che ti prendono per ubriaco
O un botto di ubriachi che ti prendono per moglie
Sono tutti opzioni di cui non ci sentiamo del tutto sicuri,
ma in fondo chi  può dirlo?
Chi  ha  notato che  abbia-
mo  creato  un pezzetto di
albero di  Natale? Auguri!!

le tasse di iscrizione



Ho un mal di testa che la metà basta. 
Per questa ragione, ne cedo metà ad un prezzo di favore, 
definito con un algoritmo insoddisfacente per chi scrive e per chi legge, che solo un pazzo potrebbe inventare. 
Ho un mal di testa da pazzi, 
per questa ragione ho inventato un algoritmo che non è proprio soddisfacente, ma almeno non dà il mal di testa.
Ho un mal di testa soddisfacente,
ed essendone del tutto soddisfatto, lo cedo per intero a chi vede tutto nero.
Lo cedo a nessun prezzo, ritenendo di fare un gesto cortese a questo eventuale signore, confermando la sua visione del mondo e permettendogli di darsi un sacco di ragione.

Ho un mal di testa che se n’è andato,
ma resta un signore che pensa sbagliato,
che vede nero anche ciò che è bianco
e la mattina si alza già stanco.

Quello che pensa è un signor errore,
e tanto gli vale la nostra iscrizione.
Qui in Accademia, entrare in trionfo,
è rotolare con un gran tonfo!
La tassa di ingresso è del tutto onesta:
si tolga di dosso il mio mal di testa!



Chi è molto attento può trovare due errori sottili, brillantemente nascosti. Questo gli varrà un colloquio in cui, davanti a una cioccolata al lampone, cercheremo di capire insieme perché fare gli errori e lasciarli dove sono è assai più divertente che scovarli e spazzarli via con lo scopettone. 

martedì 17 gennaio 2012

un momento di silenzio

Erano le magie a nascere dal silenzio, o il silenzio a diventare una magia, quando si impara a usarlo al posto delle parole?





questione di testa


C'era un bambino di seta e cartapesta,
con la faccia più grande della testa.
Gli amici lo invitavano a giocare
per poterla ogni giorno accarezzare.
Era gigante ma di seta fina
e a toccarla era proprio morbidina!
A volta si lamentava con la mamma,
donna sottile di fragola e panna:
"A lavarmi la faccia per benino,
impiego quattro ore e un pisolino!".
Rispondeva la mamma con dolcezza,
tra un applauso, uno scherzo e una carezza:
"Pensa a tuo padre che ha il cranio trasparente,
che lava in otto ore e un accidente!
La tua fortuna è tutta nella testa,
giacché non puoi bagnar la cartapesta!".

lunedì 16 gennaio 2012

una piccola formalità


Qualcuno, rasserenando un sacco di scrittori scapestrati, ha inventato la licenza poetica. Grazie a questa licenza, l’italiano rimane sempre italiano, ma si può fare tutto quello che si vuole. Certo non sta bene fare gli errori di grammatica perché chissà mai che qualcuno se ne accorga e te li sottolinei. In compenso si può gonfiare una parola fino a che quasi scoppi, o scriverla tutta storta, o arrotolarla, o far sì che salti non appena la tocchi. Un mio amico ha scritto un poema intero di parole così timide, che a tutt’oggi non si riesce a leggerlo senza che si nascondano e scappino da un punto all’altro della copertina.
Io ho inventato una canzone piramidale su cui bisogna per forza arrampicarsi e arrivati alla cima si scopre un lunghissimo scivolo che serve a portarti ancora più in alto.
Tutto questo era tanto per dire che, qui in Accademia, di licenze ne distribuiamo gratis, e mica solo poetiche: abbiamo licenze per sbagliare gli accostamenti cromatici, per confondersi una cosa con l’altra. Licenze per dimenticare di tutto tranne le cose più importanti, come sorridere; licenze medie, ovvero né troppo alte né troppo basse, e licenze per essere convinti di una cosa sbagliata per un sacco di tempo, salvo alla fine cambiare idea.
Queste sono solo alcune delle nostre licenze. Tante, non le abbiamo ancora inventate. Per questa ragione valutiamo proposte, suggerimenti e trabocchetti, ovvero proposte per cui non abbiate un'apposita licenza in carta caramellata.
Per sicurezza, conferiamo a chiunque soltanto lo pensi, la licenza di proporre qualunque cosa, anche quelle strane strane, anche quelle impossibili. Questa licenza vale sempre, e mica solo qui.  

sabato 14 gennaio 2012

ma alla fine cosa avevo in mente?

un blog senza nome ma con un mare di storie. Storie senza per forza trame, trame senza per forza storie. 
Trame che tremano, trame estreme, storie che da un eremo tramano contro le tradizioni, e le tradizioni sono storie con le trame, trame con le storie e un ordine che finiva per non cambiare. Direi invece di fare tutto a pezzettini, di lasciare fare, di camminare errori su errori fino a che, tra un errore e l’altro, si arrivi a una città perfetta.
E quale stupore, dopo averci portato la famiglia con tutti i bambini, scoprire che era perfetta solo per errore.
E quale piacere, ormai che abbiamo chiamato tutti, riprendere la gita tutti insieme! 

venerdì 13 gennaio 2012

chi trova il senso, davvero lo cercava?


Chi la fa l’aspetti, ma io aspettavo uno che aspettava di farla, e dai che dai siamo diventati vecchi.

Gerolamo il folletto,
viveva nel cassetto
di via della Riscossa,
in una casa rossa.
La casa era abitata
Da Gina, la cognata
Che giù nel sottotetto
Cascava su dal letto
Saltando per benino
non chiese un pisolino.
Chiedeva una poesia, ma non la fece mia, la fece per sua nonna, sembrò una minigonna, un attimo e passava, e lui la rincorreva, correva per il bosco, fermandosi in un chiosco, a bere un’aranciata, con aria trasognata. Poi corse a perdifiato, dove non era stato, diresse verso il lago, all’ombra di uno spago, che non copriva il sole più di un campo di viole, le viole del pensiero, comprenderle un mistero, mistero di Barletta, che chi lo sa lo aspetta, mistero di Parigi, lo sanno solo i ligi, son ligi all’etichetta, chi più ne ha la smetta, la smetta di giocare, non è il modo di fare, ma a fare son fasulli, ed abitano nei trulli. I trulli son di pietra, vanno dalla a alla zeta, alfabeto di mattoni, costruito dai più buoni. Sono buoni per la spesa, lo sa vispa Teresa, che gioca con gli insetti, finché dentro i laghetti, le crisi di coscienza le portan via la lenza. La lenza è un po’ amarina, pensa la zia Rosina, ai poveri pescetti, darò dei bei confetti, di rose e marzapane, per masticar lontane, dal re dei pescatori, che han troppo buoni i cuori: ai pesci nelle reti, un bacio e poi sono lieti! Li lasciano nel mare, guardandoli nuotare, la fame non la sanno, sono sazi tutto l’anno, è l’anno del campione, la pecora e il leone, si sfidano a racchette, vince chi più ne mette. Vince chi più ne ha, ma come non lo sa, ne avrebbe fatto a meno, ma le trovò sul fieno, dove il vitello grasso, rideva allo sconquasso, pensando a quel figliolo che dissipava l’oro. L’oro era nel giardino, in un canestro fino, verso un arcobaleno al gusto di acqua e fieno. Del fieno faccio a meno, disse il messer pompiere, ma l’acqua sì la voglio, che sia almeno per bere. Beve Rosina, beve la sua nonna, beve il trisnonno pur con un certo sonno, beve l’acquario che ha pure una crepetta, beve Pasquale che è un mago e ha una bacchetta. Coi grandi suoi poteri, riempie d’acqua i bicchieri, e gli alberi assetati invita in mezzo ai prati. Quelli vengono lenti e arrivan da lontano, ci metton così tanto, che è morto e nato il grano. Il grano è giallo oro, perché riflette il sole, è il cerchio dei colori, la luce mai non muore.




Chi sa trovare il sottomarino? 
Io ci vedo anche una striscina di cielo, manca solo il sole. Se manca il sole sorridete forte.
E infatti c'era. 


giovedì 5 gennaio 2012

Non tutti i buchi escono per errore


Alcuni li fanno proprio apposta. Ma nel farli apposta, sbagliano.
Ad esempio, un buco in cui piantare una pianta può diventare una pianta su cui fare un buco, il che è spiacevole per la pianta ma consente al piccolo Luigi di guardarci attraverso mentre gioca a nascondino, per guardare non visto il cugino Evaristo. Meglio che niente, tutto sommato. 

Non tutti gli errori escono col buco


Non tutti gli errori escono con buco. Alcuni col bruco, altri col fuco, altri col tufo e col tartufo.
Non scherzare col fuco,
disse l’ape al tartufo,
ma l’aroma che aveva
dolcemente scorreva
lungo le tue narici
che se pensi e se dici
non sai poi con certezza
se è quell’ape che olezza
o se è amica davvero
di quel tubero nero
che ascoltar non ascolta
ma sul riso risalta.

Per chi trova l’errore è in palio un’Accademia degli errori e mezzo, un chilo di errori al tartufo e un'ape da guidare con prudenza.
Quella del bruco nel tufo è una storia diversa, che un giorno racconterò per errore, probabilmente da dietro un buco. 

Così chiamiamo il nostro popolo di linee, qui approdano le barche dell’incertezza, così si svelano gli arcani delle cadute a gambe all’aria, delle ossa rotte, delle speranze frantumate in mille altre, e in mille mondi, e in incertezze nuove e nuovi amori, e corse, e ombre da cui sfugge il sole e che il sole ritrova.