mercoledì 31 ottobre 2012

Titolo a piacere


Avevo un amico, stava in collina
andava in discesa senza benzina,
a tracollina teneva i gioielli,
trenta li dava ai suoi 3 fratelli,

trenta e ritrenta, nel trentativo,
e diventato un tantino Giulivo,
che è nome proprio di lieta persona
e devo dire che proprio gli dona.

Cosa gli dona, non saprei dire,
ma ve lo dono per mille lire,
lire che suonano, arpe e chitarre,
suonano forte da dietro le sbarre.

Tutte le sbarre son fiori del prato
chi soffia forte è allegro e beato,
con un accento sarà un bea-tò
che dà a Beatrice un bel palettò. 

Mi palettò proprio un vigile urbano
perché gli facevo ciao con la mano,
con Manu ciao mi son messo a cantare,
con un manubrio provo a guidare,

guida e riguida, trovo il tuo nome,
fila in colonna, con precisione,
con precisione leggo e decanto
decanto tanto che poi mi vanto,

canto per dieci, e dieci son tante
per diventare un bel decantante,
e se l’armadio è un poco speciale,
con due cant-ante è assai musicale.

Musica tanto che non gli passa
ed è caduto nella melassa:
ossia una mela grassa abbastanza
da non restare dentro una stanza.

In questa stanza, allora vi invito,
con chi è arrivato e neanche partito,
perché il partito che vuol fondare
è il mondo intero, il cielo e anche il mare. 

I colori dei bambini


C’è una bimba gialla e bianca,
fa una sosta su una panca,
ma la panca è bianca e gialla
e diventa una farfalla.

Suo fratello è verde e rosso,
si è seduto in cima a un fosso,
ma quel fosso è rosso e verde,
e chi cade ci si perde,  

chi si perde è azzurro e blu
guardi bene e non c’è più,
tutto blu ma poi azzurro
è svanito in un sussurro.

Il sussurro era un sorriso,
per chi ha visto un fiordaliso
e dal fosso si è trovato
dentro il cielo blu stellato.


martedì 30 ottobre 2012

Si può fare?


Ce la faremo. E se ce la fa Remo, perché non dovremmo farcela noi?
Vi dirò di più: non solo ce la fa Remo, ma ce la fa anche Rina, e se c’è la farina ci si può fare del buon pane e mangiarlo intero o a fette.
Dopodiché magari scopriremo (ma chi è che ha coperto Remo? E sì che ce l’aveva anche fatta!) che il pane che aveva fatto Rina, e che noi ci siamo mangiati di gusto, era in realtà un panegirico.
Assimilato quello, potremo prendere coi nostri cuori forti le posizioni dei mari, dei monti, dei fiumi freschi che irrompono sulla terra e di una terra di cui DOBBIAMO tornare a prenderci cura. Si può fare? La risposta è alla prima riga. 

lunedì 29 ottobre 2012

Il magone



Erika e Simone, fratelli per la pelle, del tutto indifferenti alla pelle che li affratellava (ovviamente questo vale per Simone: nel caso di Erika li assorellava), litigavano. Litigavano alla sera, alla mattina e anche a mezzogiorno. Litigavano di sotto, di sopra e anche a metà. Litigavano in tutte le lingue e in tutte le stagioni. Litigavano persino per chi doveva iniziare a litigare:
“Oggi tocca prima a me!” sbottava Erika con violenza, mentre la mamma ascoltava sospirando dalla finestra.
“Col cavolo!” gridava Simone, sostenendo che, siccome Erika il cavolo non ce l’aveva, spettasse a lui iniziare a litigare (stando a questo criterio, la mamma annotò che gli agricoltori dovevano essere litigiosissimi).
Un giorno, tuttavia, la situazione cambiò di colpo. Tutto accadde per un fattore inspiegabile: nessuno, difatti, avrebbe saputo spiegarsi cosa ci facesse un fattore della fattoria lì in piedi, in mezzo al giardino, a guardare con tanta dolcezza sia Simone che la sorellina Erika.
Eppure era lì. Colpiti da uno sguardo così buono e denso di interrogativi, i due fratellini smisero per un attimo di accapigliarsi e si guardarono in silenzio, sentendo arrivare il magone.
Il magone, un mago sorridente di due metri e trentuno, si sedette con la testa verso l’alto proprio di fianco al fattore e la magia che fece dev’essere stata gigante, perché da quel momento in poi Erika e Simone smisero di litigare.
Un mago suo amico, tempo dopo, gli chiese se avesse brevettato l’incantesimo della pace che aveva usato per i due fratellini.
Il magone proruppe con una bella risata e rispose: “Amico mio, la pace è di per sé una magia, ma richiede di fermarsi per qualche momento ad ascoltare il cuore. Erika e Simone non litigano più perché si vogliono bene!”

La farfalla


C’era una volta un bruco,
poggiava su un tartufo,

eppure c’è un però:
chi il tubero mangiò

trovò una gran farfalla
con un’aletta gialla,

quella altra era verdina,
e tutta la cucina,

dal tavolo al comò
tutta si illuminò. 

mercoledì 24 ottobre 2012

La motoambulanza


Avevo un amico di nome Pasquale
che andava in moto ma senza fanale,
in sella portava Rosaria e Giuditta
ma sulla sua moto non c’era marmitta.

Giuditta era in vero un poco più bella,
ma su quella moto mancava la sella.
Pasquale sognava di fare il dottore,
però difettava di carburatore,

filava cantando e contava le note
sul suo motorino senza le ruote,
da tutti i pazienti correva di cuore,
e sì che mancava persino il motore.  

Pasquale ha tre anni, in arte Danilo, 
dottore provetto di tutto l’asilo,
arriva, sorride, ti guarda sincero
e chi stava male guarisce davvero!

Il colore della storia


Vi racconto una storia che non è verde, che non è blu, che non è gialla canarino perché è passato un bianco imbianchino, ma poiché il bianco era troppo chiaro, ci è poi bastato poco denaro, per assoldare un bell’ingiallino, specializzato nelle tinture color luce del sole.
E mentre l’ingiallino, sereno sorrideva, passò anche un inverdino, a cui il giallo gli piaceva.
L’inverdino non dipinse nulla, ma seminò molto e si dotò di grande pazienza.
Poco lontano un arrossino li salutava a grandi gesti. Gli fecero cenno di avvicinarsi, ma quello non poteva spostarsi da quanto era indaffarato: il sole stava iniziando a tramontare e, per un'ora almeno, il cielo intero sarebbe stato nelle sue mani. 





Avete indovinato il colore della storia? Se sì, disegnatelo subito su un foglio. Nel farlo, immaginate per un attimo di essere voi il foglio: come vi sentireste se vi colorassero una storia sul naso? 

lunedì 22 ottobre 2012

La STRAADA


C’erano una volta tre bambini; il primo si chiamava Rino, il secondo Marino, il terzo Rosmarino.
Camminavano insieme per il bosco quando, indecisi se andare a destra o a sinistra, decisero di proseguire diritti, dove guardacaso c'era una bella strada.
Ma non appena fecero per poggiare il primo passo, si accorsero tutto in un colpo che quella innanzi a loro non era per niente una strada!
Una cosa in comune, a dir la verità ce l'aveva: se ne stava beatamente lì sul prato che pareva fosse ferma da 100 anni. Beatamente, si capisce, prima che Rino le calpestasse il ginocchio, Marino il malleolo e Rosmarino, fortunatamente, soltanto le stringhe della scarpa.
I tre fecero così la conoscenza della signorina STRA-ADA.

UNA ZIA NON COMUNE
Ora quindi dovrò spendere due parole per spiegarvi la storia di Ada, la generosa zia di Luca, Oscar e Peppino (tra l’altro, compagni di scuola dei primi tre) che alcune cose non le sapeva fare, ma altre, ne sapeva fare di formidabili.
Per esempio: non sapeva giocare a rimpiattino, ma sapeva fare un verso strano con la faccia che faceva sbocciare il fiori.
Non sapeva pulire né i vetri, né sbattere le lenzuola, né fare gli scioglilingua (ci provò molto spesso da ragazza ma, per quanto li ripetesse, la lingua non si scioglieva mai); però sapeva saltare dieci volte più di un albero, gli uccellini si posavano sulla sua testa e tante volte le lasciavano delle uova in custodia. Erano uova d’oro, ma lei le restituiva sempre fino all’ultimo guscino, e non immaginereste che meravigliosi passerotti ne nascevano.  
Ancora: non ricordava mai una e dico una data di compleanno; in compenso il suo compleanno era tutti i giorni e per festeggiarlo, aveva l’usanza di fare dei regali agli altri.
“Ma Ada, non è il suo di compleanno?” si stupiva talvolta il droghiere quando gli raccomandava di tenere il resto della spesa.
“Via via, non lo sa che compio gli anni tutti i giorni?”, rispondeva Ada, “Se fossi io a ricevere i regali, dove mai pensa che potrei tenerli?”
Stando ai suoi compleanni, Ada aveva Tredicimiladuecentotrentacinquecentoventiquattromila e un anno, ma io vi garantisco che non ne dimostrava più di 31 (e già per dimostrare quelli non vi dico che calcoli doveva fare).
In totale, poiché Luca, ma soprattutto Oscar, ma ancor di più Peppino, la consideravano una strasupermegafantazia, e non una strasupermegafantazia quasiasi, ma una strasupermegafantazia Ada, per andare incontro proprio a Peppino, che era piccolo piccolo e a strento biascicava un trisillabo, venne chiamata Zia Stra-Ada – Stra-Ada e basta, per quelli di cui non era zia; e io vi garantisco che non era zia né di Rino, né di Marino né tantomeno di Rosmarino.
Benissimo. Ma cosa ci faceva StraAda lì per terra a farsi schiacciare il malleoli?
Capirete da voi che non era quella la sua idea, all’inizio. Cosa avreste fatto al suo posto in un bel boschetto, sul prato, tra la luce e l’ombra, in uno splendido pomeriggio primaverile? StraAda stava facendo un riposino (all’inizio, per la verità, aveva cercato di schiacciare un pisolino, ma aveva sbagliato mira e il pisolino era fuggito via dritto filato)!

Inutile dire che i tre piccoli la svegliarono tutta d'un colpo, difatti tirò un urletto mica da ridere. 
E a quel punto?
Rino prese a ridere per lo spavento, 
Marino finì in un cespuglio per il vento, 
Rosmarino disse solo “Tò!” e porse a StraAda una caramella.
“Grazie, piccolo!”, disse Straada massaggiandosi la stringa della scarpa, “ma non posso proprio accettare!”
E prese a cantare una canzone per spiegare a tre bambini, ma soprattutto a Rosmarino, che aveva il naso tondo con la punta rossa rossa, che oggi era un giorno speciale per lei: tra poche ore sarebbe stato il suo compleanno e doveva assolutamente fare un regalo a qualcuno!
Così i tre fanciulli si videro regalare nientemeno che una STRADA gialla gialla. Marino, sulle prime,  porse la mano per mettersela in tasca e farla vedere alla mamma prima che si impolveasse, ma era tardi: la cara StraAda l’aveva già appoggiata per loro già da molto tempo, e i tre non poterono che seguirla correndo. Corsero tanto che alla fine raggiunsero un paese incantato, dove tutto era sempre nuovo, e ogni colore una festa, e ogni sorriso una scoperta, e a loro sembrava un sogno fantastico, ma non era che la vita.  

domenica 21 ottobre 2012

Una vacanza sbagliata


Conosco un tale che tra il dire e il fare,
era felice che ci fosse il mare:
diceva e diceva senza sosta
e non faceva niente a bella posta,

certo com'era, tra le due parole,
di andar nuotando e prendere anche il sole. 
Sul capo aveva maschera e boccaglio
eppure aveva preso un bell’abbaglio,

perché in quel mare non ci trovi onde,
se vuoi tuffarti mancano le sponde.
È il mare di chi nulla vuol fare
e non è buono nemmeno per nuotare.

giovedì 18 ottobre 2012

Un tocco di colore

L' ingegner Giovanni entrò nel suo ufficio, doveva essere martedì mattina, e si accorse dopo 15 anni suonati che era tutto grigio. 
Per un po' se ne rimase perplesso guardando il soffitto, poi chiuse gli occhi e, appena li riaprì, la pesante scrivania di compensato era diventata di un bell'azzurro frizzantino. 
L'ingegner Giovanni ci appoggiò la penna soddisfatto. Chiuse e aprì gli occhi un'altra volta, ed ecco le vecchie tende diventare gialle come canarini che presero subito il volo, lasciando la stanza piena di sole. 
"Bene bene!" Esclamó l'ingegner Giovanni! Battè due volte le mani: alla prima i muri diventarono verde smeraldo, alla seconda il soffitto si colorò di rosso vivo come la lava del Vesuvio. Fu perfetto, dato che iniziava a far freddo e il riscaldamento non ancora acceso. 
Quando nel pomeriggio, il professor Sparachiodi, che era il capo di Giovanni, entrò di corsa nell'ufficio, non riconobbe niente e nessuno! Alzò gli occhi x chiedere indicazioni e si trovò davanti proprio Giovanni, con un sorriso raro e una bella camicia cangiante, che gli consegnava tutto il lavoro della settimana.

martedì 16 ottobre 2012

Nella e il volo


C’era una volta una piccola uccellina di nome Nella.
Da quando era nata, era sempre stata chiusa in una gabbietta azzurra.
Quando guardava in alto, la gabbietta le ricordava il cielo, ma i raggi del sole li poteva vedere solo dalla finestra.
Il piccolo Tommaso, che abitava nella stessa casa in cui si trovava la gabbia, ogni giorno, tornando da scuola, la salutava contento e lei rispondeva con un bel fischietto, che però non era mai allegro del tutto.
Svolacchiava qua e là nella gabbia, è vero. Non faceva nessuna fatica a procurarsi il cibo, anche questo era vero.
Eppure si sentiva sempre un poco triste, perché il desiderio di spiccare il volo al di là della gabbia era vasto e profondo.
“Oh Marina, quanto è il mio triste destino!” si lamentava spesso con la tartaruga Marina, che albergava in una vaschetta poco distante. “Eppure pensa, persino di cognome mi chiamo Gabbia, che destino fatale! Nella Gabbia! Che altra fine avrei mai potuto fare?”
La tartarughina aggrottava la rughina che aveva sulla fronte e continuava a nuotare nella vaschetta, guardandola teneramente.
Passarono le stagioni e la piccola Nella, per non rendere triste Marina, smise a poco a poco di lamentarsi. Imparò a essere contenta del sorriso di Tommasino, che le urtava la gabbietta quando era pronto in tavola e si precipitava in bagno a lavare le mani; dello sguardo premuroso della signora Pina che ogni mattina le scaldava il becchime;
dei raggi di sole che vedeva di lontano, che entravano dalla finestra e andavano a cacciarsi dappertutto.
La sensazione del volo non l’abbandonò mai, ma la malinconia diventò sempre meno, man mano che imparò a volare con il cuore.
Un volta poi, durante una splendida primavera, un raggio di sole urtò sullo specchio, lo specchio scintillò per il contraccolpo, il contraccolpo luccicante iniziò a saltellare per la stanza e, non sapendo dove altro infilarsi, si gettò tutto intero tra le piume di Nella.
Nella si guardò le zampette, sentendosi un po’ strana. Poi fece un voletto tutto emozionato e finì per sbattere di proposito contro la porta della gabbietta. 
Così scoprì una prima notizia sensazionale: era aperta!
Ma la notizia davvero speciale, fu che lei non era mai stata Nella Gabbia, ma era da sempre una splendida Gabbia Nella, e spiccò il volo in un cielo più azzurro di qualunque altro pensiero.

lunedì 15 ottobre 2012

Dirindinda senza gatto (ma coi fiori)


La regina Dirindinda
ha la testa variopinta,
poiché il gatto è andato via
e per farle compagnia

ci ha piazzato un bel cespuglio,
che è fiorito il dieci luglio.
I suoi fiori sono belli,
ci si posano i fringuelli,

quando il sole li accarezza,
tira sempre un po' di brezza
così sopra quella testa
tutto è allegro e sempre in festa!

La gonna della quaglia


C’era una quaglia
che per tutta Italia
lavorava a maglia
con una tenaglia.

Incontrò un pastore
proprio di buon cuore
e la sua migliore
pecora a motore

lui offrì all’uccello
che con lo scalpello,
sopra uno sgabello
si grattò il cervello; 

e per sua sorella
con la pecorella
fece una gonnella
resistente e bella.

Fece in un minuto
grazie al bel tessuto
grigio e riccioluto
di ferro battuto!

domenica 14 ottobre 2012

Il pollo alla cacciatora


Il pollo alla cacciatora, potrebbe sembrare un piatto; invece, come dice il nome stesso, è un pennuto da cortile.
Questo pennuto, che in effetti all’inizio era in cortile, fu regalato alla cacciatora che, tutta contenta, lo mise su una spalla e lo portò via.
Sulla strada, incontrò una cacciatrice che la apostrofò con violenza, accusandola di non essere altro che un errore grammaticale, costituitosi a bella posta per impossessarsi del suo pollo.
“Come se si fosse mai sentito parlare di “pollo alla cacciatrice”!” replicò la cacciatora.
In effetti neanche il pollo, interrogato a bruciapenne, ne aveva mai sentito parlare.
La cacciatrice però non si convinse e le due continuarono a litigare. Litigarono tanto che alla fine anche il pollo si stufò.
A dire la verità stava per stufarsi, ma proprio mentre pensava che forse non era quello il verbo adatto, fu miracolato dalla mancanza della stufa e perse semplicemente la pazienza.
Persa che ebbe la pazienza, corse a cercarla e svanì nel fitto del bosco. Ma poiché il fitto del bosco non l’avevano pagato né la cacciatrice né la cacciatora, smisero in fretta di litigare e, per non rischiare che qualcuno presentasse loro conto della permanenza del pollo, se la svignarono.

NOTA
So bene che, per svignare una permanenza, bisognerebbe che a permanere fosse una vigna, e difatti c’era; tuttavia, dopo che l’ebbero svignata, a permanere fu soltanto il pollo. Non che la permanente gli stesse male, ma le due si defilarono in ogni caso con una concitazione tale che, appena fuori dal bosco, furono multate da un pavone per eccesso di fretta.
FINE DELLA NOTA

Il pollo, intanto, lungi dall’incontrare qualunque esattore, recuperò la sua pazienza e iniziò a infilarla con cura in un orecchio. Non avendo le mani, non nego che fu un’operazione un po’ alla buona; ma la buona, che era sanissima, non sentiva alcun bisogno di essere operata neanche quel poco!
Il pollo, animale assai rispettoso, accettò di buon grado di non operarla e i due divennero grandi amici.
Dopo poco tempo, con l'idea di restare sempre insieme, si recarono all’anagrafe e il pollo alla cacciatora divenne definitivamente un pollo alla buona: gentile, cordiale ed amico di tutti.


giovedì 11 ottobre 2012

Questione di stile


Conosco un orso
che nuota a dorso
ed un pinguino
che va a delfino,

una sciacalla
fila a farfalla,
mentre la rana,
che cosa strana:

verde ed altera
come una pera,
segue gentile
con grande stile!


mercoledì 10 ottobre 2012

Che storia è questa?


Questa è la storia di un’altra storia, che però ho dimenticato.
Allora vi racconterò la storia di un omino di burro che era distrutto, e siccome era di strutto, non poteva essere di burro.
Per essere un po’ meno di strutto e recuperare la propria identità, dovette per forza di cose riprendersi d’animo.
Per riprendersi usò una cinepresa d’oro massiccio, per massiccio usò quello del monte bianco, per bianco usò quello dell’uovo, per uovo usò quello di Colombo, per colombo usò un piccione che si chiamava Cristoforo.
Il piccione, tuttavia, era tanto allergico al burro che volò via senza lasciare traccia.
Così finisce la storia che mi sono ricordato, che però forse non era questa!

martedì 9 ottobre 2012

Il buio pesto


Corre veloce il giovane Ernesto,
corre veloce, ma è buio pesto!
E qui si ferma perché, a ragione,
è necessaria una riflessione:

quel buio è pesto perché ha i pinoli?
Ci si condisce pasta e fagioli?
E questa pasta, ne sei sicuro,
che se la mangi poi si fa scuro?

E brancolando nell’incertezza,
il suo testone tosto accarezza,
quindi riparte filando a razzo,
contro il bel muro del palazzo!

Così che, neanche a farlo apposta,
ecco che ha avuto la sua risposta,
giacché non è buio pesto per caso,
ma perché a correre pesti col naso!

Lo sgabrutto


C’era una volta uno sgabello,
stava sopra un capitello.
Una volta, tempo addietro,
dietro una porta di vetro,

era solo uno sgabrutto,
che, bagnato o pure asciutto
non facea seder nessuno,
né coniglio né orso bruno. 

Figuriamoci gli umani,
ma poi ieri fu domani
e iniziò a lasciarsi usare,
per i monti e per il mare.

E chi a lungo passeggiava,
sul suo dorso riposava,
chi tornava dal lavoro,
ritrovava in lui ristoro.

E così servendo tutti,
tanto i belli quanto i brutti,
come dice il ritornello: 
divenuto è uno sgabello!

giovedì 4 ottobre 2012

La doccia di Dirindinda


La regina Dirindinda,
è caduta (l’hanno spinta).
Poiché stava nella doccia,
ha pestato la capoccia.

Ma lì sopra c'era un gatto,
che sostava quatto quatto,
travestito da geranio,
sulla punta del suo cranio.

Fu così che il duca Arturo
(che la spinse contro il muro)
si trovò così sorpreso,
che pensò ad un malinteso,

incontrando la monarca
con la giacca ed una scarpa,
che filava all'ospedale
miagolando per il male!

La nascita del vento


C’era un signore di nome Eolo
che si pestava sempre il malleolo.
Tanto più forte se lo pestava,
quanto più forte dopo gridava.

Finché una volta, mentre era in giro,
ci cadde sopra un ferro da stiro.
Per il dolore saltò fino a Udine,
dove ci cadde sopra un incudine.

Eolo gridò, ma così tanto forte,
che si sbatterono tutte le porte.
Lui non ne fu così tanto contento,
ma fu in quel modo che nacque il vento.

mercoledì 3 ottobre 2012

Il dentista Filomeno e il giorno in cui gli ammorbidenti furono sostituti con delle torte


C’è un dentista di nome Filomeno. Prima ce n’era certamente di più, ma ora ne è rimasto un Filo meno. Il filo di Filomeno, è ovviamente del filo interdentale e, come dice il nome stesso, Filomeno lo utilizza per menare i suoi pazienti. I pazienti non fanno così fatica ad essere pazienti: essere menati con il filo interdentale non è certo molto doloroso e spesso costituisce un piacevole diversivo rispetto a certe feroci trapanate.
Un giorno Filomeno incontrò un sarto pentito: anche lui si chiamava Filomeno, ma per ragioni del tutto diverse.
Il secondo Filomeno, sicuramente filava di meno, in compenso lavava e stirava quanto prima e anche di più: i suoi bambini stavano crescendo e sempre più spesso tornavano a casa tutti infangati.
Spesso lo sentivi dire:
 “Giovannino, come sei conciato! Dove ti sei andato a infilare? Su a lavarti dritto filato!” (pensare che lui che voleva filare di meno!)
Oppure: “Lucia, ma su che prato sei mai stata per macchiarti il sedere di azzurro?”
E Lucia si era seduta a testa in giù proprio nel cielo, che le aveva sporcato i pantaloni e anche tutti i pensieri, ma questa è un’altra storia.
Successe invece che, distrattamente, chiacchierando col primo Filomeno, il secondo Filomeno si lasciasse scappare che, per evitare di infeltrire troppo i maglioni, faceva un certo uso di AMMORBIDENTI!
Il primo Filomeno saltò in piedi come un matto: “AMMORBI I DENTI! Ma allora sei tu che fai cariare tutti i canini dei miei pazienti! Ogni molare che devo molare, ogni incisivo  che devo incidere, ogni premolare che devo premolare, potrebbe essere salvato eliminando questi mefitici ammorbidenti!
Sull’onda di questa frase, un dentista mannaro che passava di là (si chiamava anche lui Filomeno, perché era un filo – ma direi anche una corda – meno intelligente della media), fece notare ai Filomeni che, se non ci fossero state più le carie, lui e tutti i dentisti del mondo non avrebbero più avuto di che guadagnarsi da vivere.  
Il Primo Filomeno rispose con sdegno che eliminare in un colpo tutti i problemi dei suoi pazienti sarebbe valso qualunque sacrificio e anche di più. Tra l’altro lui aveva sempre avuto anche il pallino dei puzzle e poteva vivere tranquillamente vendendo quelli, che nei mercatini vanno fortissimo all’interno di certe cornicette.
Il Filomeno mannaro fu radiato dall’albo dei dentisti e anche da quello dei medici. Per l’occasione, fu chiamato un famosissimo radiatore e gli fu dato sulla testa.
Il Primo Filodemo fece una crociata per eliminare gli ammorbidenti dagli armadi di tutte le donne di casa e ottenne, infine, che questi fossero sostituiti con delle torte.
Tutt’ora non è chiaro come utilizzare le torte sul bucato. In compenso queste torte hanno una dote speciale: i bimbi possono mangiarne quante ne vogliono e i loro denti non si carieranno mai, perché nascono dall’amore di Filomeno il dentista, che magari non era tanto bravo con le parole, ma aveva un cuore grande come un continente.  

martedì 2 ottobre 2012

l'oltretromba


C’era una volta un flauto che si ostinava a dir le frasi tutte d’un fiato. Anche i suoi amici erano ostinati, e difatti facevano gli osti. Gli dicevano: vieni a fare l’oste con noi, invece di ostinarti a dire le frasi tutte d’un fiato. Ma avevano fatto i conti senza l’oste, cioè li avevano fatti giusti, dato che il flauto non andò mai a fare l’oste.
Invece rimase senza fiato tutto d’un tratto. Fu un momento fatale: vide tutto dissolversi e in un attimo si ritrovò nell’OLTRETROMBA.
Nell’oltretromba, oltre alla tromba, c’erano un clavicembalo e un paio di maracas del Portorico.
Cercò subito la complicità dei suoi compagni e mostrò tutta la sua decisione: “Per andarcene di qui, ci vuole un piano!”.
Il clavicembalo indicò un piano a coda, che si trovava su un forte poco distante, dove era arrivato piano piano (forse per via della coda). Il pianoforte salutò in Do maggiore, una nota molto grave che la maestra gli aveva dato per via di una sviolinata fatta a una tastiera. Il violino né era rimasto tanto contrariato che per il resto della lezione non aveva più preso appunti, ma solo cocenti disappunti.
Per inciso, per cuocere un disappunto, bisogna innanzitutto lavare col sapone l’espressione torva di chi lo prova, beninteso che se, dopo averlo provato, non gli piace, può benissimo lasciarlo lì. Con un po’ di mira lo lascia proprio a noi, che volevamo per l’appunto cuocerlo.
Per ancora più inciso, non so perché dovessimo cuocere il disappunto per l’appunto e non piuttosto, l’appunto per il disappunto, forse perché non eravamo disappuntiti e per questo si sarebbe dovuto temperarci. Per farlo prendemmo esempio dal clima: chi ha temperato la primavera, ci chiedemmo? Che si sia temperata da sola? Incuriositi, andammo dalla primavera a chiederglielo.
Per errore, prima della primavera, incappammo in una dopofalsa, che però era falsa. Dunque una falsa dopo falsa, ovvero una vera dopo vera, ben distinta da una vera dopo falsa, o moto falsa, che neanche si accende, o topo sfalsa, e a dirla tutta un topo che faceva lo sfalsario una volta l’ho conosciuto. Lo sfalsario, per capirci, è un tale (un topo in questo caso, ma magari anche in altri) dotato di un’enorme gomma, che cancella le banconote false fino a trasformarle in splendidi bloc notes.
Tornando al flauto, il cembalo (prima era un clavicembalo, ma ora aveva smarrito le clavi) gli spiegò delicatamente che non sentivano alcun bisogno di andarsene perché nell’oltretromba, oltre alla tromba, c’era tutta gente simpatica e si respirava un’atmosfera molto armonica: si trattava in effetti di una fisarmonica satellitare. Di preciso un’armonica a bocca, che quella volta però non abboccò e nondimeno (anche perché non so poi cosa avrei dovuto dimenare) tutti la respiravano lo stesso.
Il flauto capì e accettò di buon grado la nuova collocazione. Per sicurezza, tuttavia, rimase sempre un po’ in campana e, col tempo, divenne molto amica del batacchio.

Il lupo in sella


Questa è la storia di un lupo di un'altra storia, che x presentarsi a una lupina niente male, di cui era tutto innamorato, decise di saltare in sella. 
Il perché non lo saprei dire, forse per quella strana idea che hanno a volte i lupi innamorati, di voler sembrare un tenero principe azzurro dimenticandosi che, in quel caso, la lupa deciderà probabilmente di addentargli una coscia. 
In ogni caso, in difetto di animali da soma (figuratevi che lì vicino, a parte un'upupa e un uovo, non c'era proprio nessuno) il lupo tentò con costanza di salirsi in sella da solo; la qualcosa tuttavia era impossibile finché c'era Costanza, per cui dovette spiegarle delicatamente che il posto sulla sua groppa era già prenotato (mostrò x l'occasione un segnaposto con scritto "me"). 
Senza più costanza, il lupo non poté che arrendersi dopo pochi tentativi. In quei pochi, tuttavia, girò su se stesso così vorticosamente che ne nacque un piccolo uragano. 
La lupa, che era un'aspirante meteorologasi mostrò molto interessata a quel fenomeno e, di lì a poco, i due poterono finalmente conoscersi.

la lupupa

"Guarda guarda quella lupa!"
disse il lupo "È una gran pupa!"

"Ehi LUPUPA!" la chiamò, 
ma L'UPUPA disse: "ohibò, 
sono al terzo ramo e sto, 
chi mi chiama non lo so, 
perciò me ne sbatterò. 

E si sbatte come un uovo, 
tra le piume fa un frastuono, 

che in accordo col fraslampo, 
fanno al lupo un bello shampo, 

così il lupo, fiero in sella*, 
può tornar dalla sua bella. 







* per maggiori informazioni sulla sella del lupo, non vi rimando né a settembre né a quel paese (non avendovici ancora mai mandati), bensì alla fiaba adiacente: "Il lupo in sella"

lunedì 1 ottobre 2012

Il tiro assegno


Un tale giocava al tiro assegno. Ma tira che ritira, l’assegno si ruppe in due.
Se non altro, avete visto una riga fa, l'assegno era stato appena ritirato. 
In banca, direte voi? 
Neanche: l’aveva bagnato tutto e per quello si era ritirato. 
Per asciugarne almeno metà, smise di tirarlo, anche perché non sapeva se qualcuno l’avrebbe preso al volo e, anche in quel caso, se l’avrebbe asciugato. 
Iniziò così a asciugarlo lui. 
E fece bene, perché certe cose, se non le facciamo, nessun’altro le farà per noi. 

Il verbo orsare


“Corso” è un verbo che va a dorso
E per giunta implica un orso:
inventando il verbo “orsare”,
potrei anche andare al mare.

Vado al mare e trovo un orso
e una mela con il torso.
“C’orso” è un verbo riflessivo
Che mi rende assai giulivo.

“Vola solo chi ORSA farlo”,
come disse l’orso Carlo.
Non sapendo cosa farci,
tutti insieme andiamo a ORSARCI.

Però ORSARCI che vuol dire?
Lì per lì non lo so dire.
Per saperlo ho interrogato,
tutti gli orsi del creato.

Son finito a Yellowstone,
e non senza del bon ton,
Yoghi e Bubu ho interpellato,
così mi hanno accontentato:

la risposta, mi hanno detto,
sta nel miele: un chilo o un etto.
Ma or che tutto l’ho mangiato,
me la son dimenticato!

La distrazione


C’era un tale distratto di Fidenza,
che era distratto ma solo in apparenza.
Provai a verificare questo fatto
nel farlo però mi son distratto. 

Mi distrassi un poco per scherzare,
mentre provavo a rastrellare il mare.
Mi chiese di scoparlo un vecchio amico
(a dire il vero un poco spazientito);

per fare un lavoro più di fino
cercai di procurarmi un rastrellino.
Lo chiesi a quel il signore di Fidenza,
che lo teneva sotto la credenza.

ma quello era tanto disattento
da darmi un rasaerba per il mento.
Usai lo stesso quello, soddisfatto,
di ritagliare un mare un po’ più piatto.